sabato 6 luglio 2013

Quando non lo sai

Solitamente le emozioni sono semplici da decifrare.

Voglio vederti ogni secondo, stare con te, parlare con te, starti addosso, sentirmi toccare dalle tue mani, ascoltare il tuo respiro di notte, quindi è chiaro che ti amo.

Stare con te mi fa ridere, mi fa respirare con il diaframma, mi riempie gli occhi di luce, quando passiamo del tempo insieme mi sento più giovane, quindi è chiaro che ti voglio bene.

Quando entri nella stanza mi irrigidisco, cambio tono di voce, incurvo le spalle, stringo le labbra, quindi è chiaro che mi stai sul cazzo.

Mi gira la testa, ho lo stomaco segato in due, gli occhi che si aggrappano a tutte le vie d'uscita, quindi è chiaro che ho paura.

E via così.

Poi ci sono quelle situazioni. Quelle giornate. Come quando all'apice della crisi con l'Uomo si è infiltrato nella mia vita l'Amore Sbagliato, che poi io mesi e mesi dopo una sera mi chiudevo uno sportello di cucina su un dito all'ora di cena, o rompevo sbadatamente una tazzina, e scoppiavo in lacrime, e, mentre mi ricomponevo, sentendomi come un paese bombardato, mi chiedevo: ma che c'è? che c'è? e poi veniva fuori che era arrivata la primavera e senza saperlo stavo di nuovo attraversando un anniversario.

Stamattina per esempio erano le 5.48 di domenica e io: sveglia. Il primo pensiero è stato: eh ma dai su basta agitarsi per 'sti documenti che devi trovare per la commercialista.
Ho retto ancora una mezz'ora, rigirandomi vicino a un Uomo che bello è bello, soprattutto ora che dorme a torso nudo, ma scotta di caldo ed è tutto sudato e se lo sfiori per errore con un dito del piede reagisce come un orso a cui hai acceso un fiammifero in un orecchio.

Arrivata al consueto giro di blog dell'alba, mentre il caffè passa in cucina, eccomi qui a pensare che sì, la commercialista e il 740 e tutta quella roba che devo ancora smistare mi mettono ansia, ma oggi S. viene a pranzo e da quando ieri mattina l'ho invitata mi frega solo di quello.

E quindi: ma sei nervosa perché S. viene a pranzo?

Strano a dirsi: no.

Ieri le ho comprato un paio di pantofoline lilla numero 35 e solo guardarle mi ha risolto tutti i consueti rigiri ("ma io non so cucinare decentemente, ma cosa le faccio da mangiare, ma poi cosa facciamo con questo caldo dopo pranzo") e non me ne frega niente di niente a parte il fatto che voglio averla qui a casa con noi e parlarle un po'.

E allora sarà la telefonata di ieri con Santa Maria degli Orfani. Quella donna straordinaria, simpatica e in gamba, è capace di strapparti più organi di quanti credevi di averne in corpo, e lo fa con la naturalezza con cui un chirurgo ficca le mani nell'addome di qualcuno, spostando pezzi a destra e a manca mentre parla di quel che ha mangiato la sera prima.

Ma, mi dico, non mi aspettavo niente di diverso.

Alla fine, credo sia la sigaretta che ho fumato pianissimo ieri sera sul terrazzo. Rendendomi conto che fumare, da qui in poi, e per chissà quanto, mi farà stare male come un cane picchiato. E che questo è un problema mio, che non potrò condividere con l'Uomo né con S., e che chiunque altro sminuirà con una frase incoraggiante.

Non lo so come si chiama questa sensazione di oggi.

So che me l'avevano detto, e l'avevo letto da tutte le parti, che era dura. Lo è.




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