mercoledì 3 luglio 2013

Pensieri ed esperienze

Il 5 gennaio 2011 scrivevo:

Che poi, a voler ben vedere, no, non lo so, perchè parliamo di adottare.

Non c'entra con il fatto che figli in dieci anni non ne siano arrivati, perchè abbiamo parlato di adottare fin da pochi mesi dopo il matrimonio, quando addirittura non provavamo nemmeno ad avere figli nostri.
Semplicemente, ci siamo dichiarati disponibili, fin dall'inizio.

Non è una cosa necessariamente buona, nè necessariamente stupida.
E' stato parte del nostro progetto quando ci siamo sposati.

Io però ho sempre trovato che adottare fosse più egoistico che prendere un bambino in affido.
Prendere un bambino in affido vuol dire accettare che questo bambino non è tuo, che tu devi mantenere il suo rapporto con la sua famiglia anche se sai perfettamente che è una pessima famiglia, e che un giorno come è arrivato se ne può andare.

All'inizio, quando abbiamo fatto i colloqui per l'affido, ci hanno chiesto se avevamo delle perplessità o delle preferenze.
Io ho risposto per tutti e due, perchè ci avevamo pensato a casa:
"Ecco, noi non ce la sentiremmo di prendere un ragazzo troppo grande, di sedici anni, per esempio, che esce già da solo, di cui non conosciamo le compagnie e i giri di amici, perchè ci sembra di essere troppo giovani per essere considerati autorevoli da uno che ha la metà dei nostri anni, e ci pare una responsabilità enorme. E poi, questo lo dico soprattutto per me... mi dispiacerebbe se ci dessero un bambino molto piccolo, che poi magari ci levano per darlo in adozione, perchè se ha cinque, sei anni, magari glielo si può spiegare, si può telefonargli, restare in contatto, eccetera, mentre se è più piccolo... beh, vederlo andare via, che magari piange e non capisce, non credo che ce la farei."

E queste erano le nostre preoccupazioni. Sbriciolate istantaneamente dall'assistente sociale, che non le ha sottovalutate, ma ci ha dipinto scenari dove, dati i danni subiti nelle famiglie di origine dai protagonisti, si chiariva che avevamo ben altro di cui preoccuparci.

Tra tutti gli esempi che ci ha fatto, uno ci aveva impressionato terribilmente. Si parlava di una bambina che non accettava di essere lavata e aveva crisi di panico orrende all'idea dell'acqua. Perchè a casa sua, quando ritenevano di doverla punire, lo facevano puntandole addosso la manichetta dell'acqua fredda.
E la famiglia affidataria che se la trovava in casa stava facendo un percorso incredibile, per convincerla a lasciarsi almeno passare il corpo con una spugna bagnata.
Abbiamo passato il resto del pomeriggio a cercare di figurarci quale BESTIA può terrorizzare una bambina di quattro anni infradiciandola per punizione. Non è un pensiero tollerabile.

Ma rendeva l'idea. Come ho detto, il bambino che ci avrebbero dato se noi avessimo detto di sì aveva undici anni. E, da una frase sfuggita a una delle assistenti, credo di sapere addirittura chi fosse. Un alunno dell'Inflessibile, e anche mio, nel senso che quando è arrivato a Scuolina Rosa gli ho fatto diverse ore di sostegno. Un ragazzino con una disabilità lieve e, anni fa, gravi problemi a livello caratteriale, oggi molto migliorati. Una persona che tuttora vive in comunità e che, in fatto di danni, ha finito di subire nei primi due anni di comunità quelli che non aveva ancora subito a casa. E uno dei più affettuosi, profondi, dolci ragazzi che io abbia mai visto. Siamo tuttora in ottimi rapporti, a parte il fatto che ora è più grosso e alto dell'Uomo e mi incrina due costole ogni volta che ci incontriamo, abbracciandomi con slancio mastodontico.
Non so se avevo capito giusto. Io a questo bambino ho voluto bene dal primo minuto in cui l'ho visto. Anche se una volta, quando ancora non dosava per niente le sue già immense forze, mi ha quasi estratto un braccio dalla cuffia rotatoria della spalla, e mi ricordo il dolore come se fosse appena successo.
Abbiamo condiviso esercizi di scrittura, poesie, passeggiate nell'orto botanico, sguardi d'intesa, scherzi e battute.
Poi ho sospettato che fosse lui il mio "figlio in affido" e il mio affetto per lui ha sconfinato. Non è facile dire cosa provo quando lo vedo grande, migliorato, e soprattutto felice di incontrarmi.

Non so. Io dell'affido mi ero fatta un'idea, probabilmente sbagliata, di certo incompleta, che coincideva, in buona parte, con la facilità con cui ero entrata in rapporto con lui e con altri ragazzini della comunità che sono passati da scuola.
E in un certo senso è vincere facile. Sono persone che hanno alle spalle cose tali che un cristo qualunque che si occupi di loro, gli dia da mangiare e non li maltratti fa già miracoli.

Diversa è la mia idea di adozione.
Ti adotto significa "tu non hai una famiglia, io ti dò la mia. Ma ti cambio nome e cognome, tu diventi mio, e mi devi trattare come un genitore. Solo che i tuoi genitori sono da un'altra parte. E anche se tu un giorno li ritroverai (a un nostro amico è successo, e ha scoperto anche di avere dei fratelli) sarai parte della mia famiglia, non della loro."

A me, sbaglierò, è sempre sembrata più che altro l'ultima ratio di una coppia che non può avere figli suoi.
Anche se la frase che ci dicevamo noi all'inizio era "due nostri e uno adottato". Come a dire che avremmo voluto fare Spazio abbastanza...

Però non lo so.
A parte tutto, mi fa impressione la faccenda del nome.
Spiego. Da un paio d'anni mia madre lavora come volontaria in una casa protetta per bimbi in attesa di una decisione del tribunale, che solitamente vanno poi in adozione. Sono bimbi più o meno sotto i sedici o diciotto mesi, quando arrivano hanno pochi giorni di vita. Ci sono volontarie che turnano di giorno per dare una mano alle suore, che già si sparano le notti con magari quattro poppanti, e al personale fisso, che si occupa anche della casa. Li accompagnano anche alle visite pediatriche e ricevono le visite di genitori, nonni o zii biologici e di coppie designate per l'adozione.

Mi ha letteralmente scioccato scoprire che i nomi che vengono dati a questi bambini in comunità molte volte non sono i loro nomi veri, e ancora di più che le famiglie che adottano possono scegliere un altro nome ancora.
Perchè a me sembra che, a parte tutto, quando una donna (o una ragazzina, come capita spesso in quel contesto), comunque sia conciata (paziente psichiatrica, spesso, o prostituta o drogata), invece di abortire ti ha tenuto, ha fatto lo sforzo di portare a termine la gravidanza e di partorirti, e poi ti ha dato un nome, cazzo, QUELLO è il tuo nome, magari è la sola cosa che ti legherà alla tua vera origine per tutta la vita. Capisco che sia necessario un cognome nuovo. Capisco che i bambini siano troppo piccoli per farsene un problema, ma per esempio la prima bimba che è stata ospitata nella struttura quando aveva appena aperto, Maria, che non si chiamava veramente Maria, aveva un anno quando è diventata Sofia e se n'è andata con la sua famiglia d'adozione in Toscana. E io mi domando ancora: la quindicenne, presumibilmente ecuadoriana a giudicare dai tratti della bimba, che l'aveva messa al mondo, come l'avrà chiamata realmente, con quale nome si ricorderà di lei?

Capito cosa intendo?

Insomma, ho dei dubbi. Su cosa voglia dire veramente questo gesto di prendersi in casa qualcuno che è nato altrove, e mica solo su ciò.

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