sabato 1 febbraio 2014

Il mare di Cortés

Quando ero una ragazzina avevo un romanzo che amavo molto. Si intitolava “La ragazza del mare di Cortés”. La storia era quella di una ragazza messicana che viveva con il nonno, una specie di Heidi dall'altra parte del mondo, e si immergeva nell'oceano per pescare pesce, ostriche o altri molluschi, e fare lunghe nuotate in solitaria. Poi incontrava una manta gigante ferita da una rete da pesca, la curava, e diventavano amiche, l'enorme bestia le permetteva di nuotare vicina e la trasportava sulle proprie ali in viaggi meravigliosi.

Io ero una bambina solitaria, amavo sparire per ore nella natura e fare amicizia con animali improbabili, e al mare nuotavo fino a sfinirmi. Quel romanzo sembrava scritto per me. Ricordo interi brani quasi a memoria, per esempio quello in cui a Paloma viene un crampo fortissimo che le paralizza le gambe, mentre le correnti la trasportano lontano dalla riva, e lei mette in pratica tutto quello che sa sul mare e sul corpo umano per sopravvivere. Ricordo la luce del sole sulle acque scintillanti, il sale sulla pelle e la gigantesca ombra delle ali della razza, come se tutto quel che ho letto su quelle pagine mi fosse successo veramente. Ci penso spesso. E' uno dei miei luoghi dello spirito, che conosco pur non essendoci mai stata, come il Cile di Isabel Allende, il cortile di “Un albero cresce a Brooklyn”, il giardino segreto di Mary, le brughiere di Jane Eyre, il Kenya di Karen Blixen.

Stasera pensavo a quel che sto facendo adesso della mia vita, e mi è venuto in mente il mare di Cortés, perchè quel che sto facendo adesso è pescare perle.

Ci vuole la stessa pazienza, la stessa resistenza all'apnea. La stessa capacità di sopportare i tagli che i bordi delle ostriche fanno sulle mani mentre le stacchi dagli scogli, e il dolore del sale che li fa bruciare e guarire al tempo stesso. La stessa rassegnazione nell'aprire i gusci e trovarci a volte solo sabbia, o niente del tutto. La stessa cura nel mettere via le piccole perle lucidate.

Io il venerdì mi metto in macchina e guido, vado a parcheggiare in una strada brutta e grigia di Torino, e passo davanti alla casa dove la Princi viveva, alla scuola dove studiava, ai giardinetti dove giocava prima che la togliessero alla sua famiglia. Poi vado nel palazzo dell'ASL e mi siedo sulla stessa sedia su cui era lei due giorni prima, e a volte mi sembra di assomigliarle anche nel modo di stare seduta. E faccio colloqui di due ore, due ore e mezza, con la sua psicologa, e riporto indietro piccole perle irregolari, lucenti, che sono le poche cose che la psicologa mi dice di lei, di come sta, di cosa dice.

Oggi per la prima volta mi ha visto piangere. Ma le perle che ho portato a casa stavolta ha voluto vederle anche l'Uomo. Non è stata un'immersione a vuoto.

Poi il lunedì io trovo una scusa per mandare a Santa Maria degli Orfani o alle SS un messaggio e aggrapparmi a qualsiasi cosa. Una data. Una cosa da fare per la sua scuola. Un'informazione su dov'è e cosa fa. E tiro su gusci taglienti e vuoti, spesso.

Poi ogni tanto riesco a comunicare con lei. Via sms, di solito. E non posso scavare perchè lei tace appena non se la sente più. E io resto con il cellulare acceso e nella notte allungo la mano nel buio, per vedere se c'è la bustina del messaggio che aspetto.

E poi ogni tanto io e l'Uomo parliamo di lei. E ogni tanto parte da lui, e per me è un balsamo sulle ferite.

E poi io metto tutte queste piccole perle che ho preso in fila, quelle più grandi, quelle più piccole, quelle un po' storte, quelle un po' opache, e le guardo.

Mi immergerò anche domani.


1 commento:

  1. tesoro..... che dire? racconti la tua sofferenza in forma di poesia e non so dirti altro che CORAGGIO per la tua durissima strada e GRAZIE per le tue parole così struggenti. Un abbraccio, a te all'Uomo e alle tue bestioline . Elena

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