Così mi immaginavo di fronte alla psicologa che doveva farci il colloquio iniziale per l'adozione, il 21 novembre del 2011.
Domani ci sarà il colloquio con lì'intero team per decidere che fare di noi e della Princi. Partecipanti: io e l'Uomo, la psicologa del tribunale, l'educatrice e l'assistente sociale, la responsabile della comunità.
Immagino all'incirca questa scena.
Solo che io NON SARO' Ripley con Newt in braccio. IO SARO' L'ALTRA.
giovedì 20 febbraio 2014
sabato 1 febbraio 2014
Il mare di Cortés
Quando
ero una ragazzina avevo un romanzo che amavo molto. Si intitolava “La
ragazza del mare di Cortés”. La storia era quella di una ragazza
messicana che viveva con il nonno, una specie di Heidi dall'altra
parte del mondo, e si immergeva nell'oceano per pescare pesce,
ostriche o altri molluschi, e fare lunghe nuotate in solitaria. Poi
incontrava una manta gigante ferita da una rete da pesca, la curava,
e diventavano amiche, l'enorme bestia le permetteva di nuotare vicina
e la trasportava sulle proprie ali in viaggi meravigliosi.
Io
ero una bambina solitaria, amavo sparire per ore nella natura e fare
amicizia con animali improbabili, e al mare nuotavo fino a sfinirmi.
Quel romanzo sembrava scritto per me. Ricordo interi brani quasi a
memoria, per esempio quello in cui a Paloma viene un crampo
fortissimo che le paralizza le gambe, mentre le correnti la
trasportano lontano dalla riva, e lei mette in pratica tutto quello
che sa sul mare e sul corpo umano per sopravvivere. Ricordo la luce
del sole sulle acque scintillanti, il sale sulla pelle e la
gigantesca ombra delle ali della razza, come se tutto quel che ho
letto su quelle pagine mi fosse successo veramente. Ci penso spesso.
E' uno dei miei luoghi dello spirito, che conosco pur non essendoci
mai stata, come il Cile di Isabel Allende, il cortile di “Un albero
cresce a Brooklyn”, il giardino segreto di Mary, le brughiere di
Jane Eyre, il Kenya di Karen Blixen.
Stasera
pensavo a quel che sto facendo adesso della mia vita, e mi è venuto
in mente il mare di Cortés, perchè quel che sto facendo adesso è
pescare perle.
Ci
vuole la stessa pazienza, la stessa resistenza all'apnea. La stessa
capacità di sopportare i tagli che i bordi delle ostriche fanno
sulle mani mentre le stacchi dagli scogli, e il dolore del sale che
li fa bruciare e guarire al tempo stesso. La stessa rassegnazione
nell'aprire i gusci e trovarci a volte solo sabbia, o niente del
tutto. La stessa cura nel mettere via le piccole perle lucidate.
Io
il venerdì mi metto in macchina e guido, vado a parcheggiare in una
strada brutta e grigia di Torino, e passo davanti alla casa dove la
Princi viveva, alla scuola dove studiava, ai giardinetti dove giocava
prima che la togliessero alla sua famiglia. Poi vado nel palazzo
dell'ASL e mi siedo sulla stessa sedia su cui era lei due giorni
prima, e a volte mi sembra di assomigliarle anche nel modo di stare
seduta. E faccio colloqui di due ore, due ore e mezza, con la sua
psicologa, e riporto indietro piccole perle irregolari, lucenti, che
sono le poche cose che la psicologa mi dice di lei, di come sta, di
cosa dice.
Oggi
per la prima volta mi ha visto piangere. Ma le perle che ho portato a
casa stavolta ha voluto vederle anche l'Uomo. Non è stata
un'immersione a vuoto.
Poi
il lunedì io trovo una scusa per mandare a Santa Maria degli Orfani
o alle SS un messaggio e aggrapparmi a qualsiasi cosa. Una data. Una
cosa da fare per la sua scuola. Un'informazione su dov'è e cosa fa.
E tiro su gusci taglienti e vuoti, spesso.
Poi
ogni tanto riesco a comunicare con lei. Via sms, di solito. E non
posso scavare perchè lei tace appena non se la sente più. E io
resto con il cellulare acceso e nella notte allungo la mano nel buio,
per vedere se c'è la bustina del messaggio che aspetto.
E
poi ogni tanto io e l'Uomo parliamo di lei. E ogni tanto parte da
lui, e per me è un balsamo sulle ferite.
E
poi io metto tutte queste piccole perle che ho preso in fila, quelle
più grandi, quelle più piccole, quelle un po' storte, quelle un po'
opache, e le guardo.
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